Accoglienza migranti: la parola all'infettivologo

CONDIVIDI


Poliziotti e migrantiI rischi, la profilassi e le regole di buon senso per chi è impegnato nell'accoglienza la cura e la gestione del fenomeno degli sbarchi dei migranti in Sicilia. In questa intervista rilasciata alla stampa 19 luglio scorso, ne parla il professor Bruno Cacopardo, primario ospedaliero e direttore della scuola di specializzazione in malattie infettive dell'Università di Catania.

"Sì, ho sentito di questi allarmi sul rischio di contagio diffuso di malattie gravi come la tubercolosi o la meningite durante le fasi di salvataggio e di accoglienza dei migranti. C'è perfino chi ha evocato l'ebola. A mio parere, sono allarmi esagerati e vorrei spiegare perché. Da quando la massiccia ondata di sbarchi sta colpendo la Sicilia, l'arrivo di decine di migliaia di persone da alcune zone dell'Africa e del Medio Oriente, sta fornendo nella regione una sorta di 'osservatorio epidemiologico' in presa diretta. E i dati finora emersi, insieme alla conoscenza dei reali modi di diffusione di alcune patologie e dei presidi necessari per evitarle, possono ricondurre nelle giuste proporzioni la preoccupazione, fra gli operatori in prima linea, di poter contrarre patologie contagiose durante il servizio".

Da gennaio sono già approdati circa 80mila migranti e non risulta finora la diffusione di epidemie nei centri di accoglienza. Restano però i timori di poter contrarre, per la vicinanza agli sbarcati, patologie gravi come la tbc o la meningite. Si tratta di timori fondati, professore?
"Per alcune categorie professionali, come i medici ad esempio, il rischio di contrarre malattie contagiose dovuto a contatti ravvicinati e prolungati con pazienti può sempre esistere. C'era da prima degli sbarchi di migranti e ci sarà, evidentemente, anche dopo. Per quanto riguarda invece categorie professionali esposte a contatti meno prolungati, come il personale della Polizia di Stato o anche della Marina ad esempio, il rischio è teoricamente presente, ma praticamente molto basso e molto poco consistente, con una variabilità che dipende dal tipo di malattia infettiva...".

Può fare un esempio?
"Certo. Molti migranti giunti con gli sbarchi avevano la varicella, che è una malattia nota a tutti, molto contagiosa, che si erano trasmessi l'un l'altro per via della stretta vicinanza durante la traversata. In tali casi, è evidente che se un militare della Marina o un poliziotto che non hanno avuto da bambini la varicella entrano in contatto con qualcuno che ne sia affetto, la possono contrarre. Diverso invece è il discorso, ad esempio, della tubercolosi...".

Per quali ragioni?
"Perché la tubercolosi necessita per un contagio effettivo, che cioè si traduca poi in un'infezione nel soggetto "ricevente", di un contatto prolungato con chi ne è affetto, in un ambiente chiuso, poco ventilato, poco assolato...".

Cosa significa esattamente "contatto prolungato"?
"Che non si esaurisce nell'arco di minuti o di poche ore".

Sono tanti finora i casi di tbc registrati fra i migranti arrivati?
"Se consideriamo la tubercolosi clinica, cioè la malattia tubercolare, finora abbiamo avuto quattro casi di tubercolosi polmonare fra i migranti arrivati. Detto questo, è chiaro che per le modalità tipiche del contagio da tubercolosi chi è esposto in modalità transitoria, sia pure per ore, con una persona malata, non rischia la trasmissione. Rischia invece chi sta a stretto contatto con quel paziente per giorni o per settimane, come un parente o anche lo stesso medico, se non si protegge adeguatamente".

Come ci si deve proteggere per poter abbassare la soglia del rischio?
"Il primo presidio, la prima protezione, quella fondamentale, si basa sull'uso della mascherina. E al contrario di quanto ho sentito in alcune dichiarazioni di questi giorni, non sono necessarie mascherine particolarmente elaborate, come le cosiddette 'Ffp3', che contengono filtranti utili per infezioni aerogene da virus quali ad esempio la sars, ma non hanno una particolare utilità contro il bacillo della tbc. Basta una mascherina normale, purché sempre indossata e ben aderente al naso e alla bocca. Se poi ci riferiamo alle malattie trasmissibili per contatto della cute, come ad esempio la scabbia, per evitare rischi è sempre opportuno l'uso dei guanti".

Chi eventualmente, anche fra agenti di polizia, risulti positivo a test diagnostici di Mantoux o al dosaggio del quantiferone, sarebbe da considerare ammalato e contagioso per familiari e colleghi?
"No, nella maniera più assoluta. Sarebbe da considerare infetto, non contagioso. E la terapia alla quale dovrebbe sottoporsi andrebbe valutata caso per caso, in base alla possibilità concreta di sviluppare la tubercolosi conclamata".

E se parliamo di meningite, in particolare di quella meningococcica, quali rischi può correre chi scorta o accompagna qualcuno che ne sia affetto?
"Le meningiti possono essere di varia origine. Ci sono quelle d'origine virale, quelle batteriche... La meningite meningococcica è l'unica in cui il contagio può determinare la presenza di un batterio nel naso e ciò potrebbe generare una possibilità teorica di diffusione della malattia".

Come si annulla tale possibilità?
"Con una profilassi antibiotica, che può essere attuata con vari tipi di farmaci. La profilassi funziona molto bene, perché eradica dal naso di chi la fa il batterio. Si badi bene: non si tratta di una profilassi preventiva da prescrivere a chiunque, ma che deve essere prescritta al singolo operatore solo in caso di esposizione a un paziente su cui sia stata riscontrata, in modo documentato, la presenza della meningite meningococcica".

Infine, c'è perfino chi ha evocato l'eventualità di una diffusione dell'Ebola. Lei lo ritiene possibile?
"Direi che, in base alle conoscenze in nostro possesso, si tratta di un rischio quasi prossimo allo zero".

Catania 19 luglio 2014


Per maggiori informazioni scrivere alla Direzione Centrale di Sanità.

08/08/2014
Parole chiave: